DEDICATO A... Andrea Corona e il suo saggio Giochi ringhistici: perchè il professional wrestling e il gioco per eccellenza


DEDICATO A... 


ANDREA CORONA

l'INTERVISTA...
Ciao Andrea benvenuto nel mio blog e grazie per la tua disponibilità.
Sono io a dover ringraziare te! Per me è un vero piacere essere qui, ospite di “Tutto sui libri” (un blog che, mi risulta, gode di molta considerazione) e rispondere alle tue domande.
Quale motivo  ti ha spinto a scrivere una tesi e successivamente a rivederla per pubblicare questo tuo saggio, su quello che tu chiami il "gioco par excellence"?
La necessità di imparare a scrivere saggi. Non è facile cimentarsi con la saggistica, e così, conscio dei miei attuali limiti, ho pensato bene di cominciare con un lavoro non troppo difficile, lungo o dispersivo, e che fosse anche, possibilmente, simpatico, originale e attuale. Mi interessava, cioè, realizzare un elaborato che non avesse i limiti del progetto troppo mirato, ma al contempo non volevo neppure smarrirmi nell’evanescenza di un lavoro che si perdesse in una sorta di un “tutto che si congiunge con tutto”. Avevo dunque bisogno di una “cornice” che contenesse le mie idee, ma senza diventare prigioniero di un “setting” troppo rigido. E il dibattito sul gioco si prestava perfettamente al mio discorso. La gestazione di “Giochi ringhistici”, comunque, è stata piuttosto lunga, perché il mio scopo era quello di presentare l’argomento sotto forma di “segnalazione” per i sociologi, i ludologi, i semiologi e i filosofi del linguaggio. Mi occorreva dunque imparare a proporre un’idea, aggiungendo possibilmente un tassello nuovo, presentare un argomento inedito e sottoporlo all’attenzione delle persone interessate. Ho impiegato molto tempo a trovare la “struttura narrativa” giusta, il “taglio” adatto, ma, alla fine, direi che la mia segnalazione è stata accolta senza troppe difficoltà. Il saggio è piaciuto molto ai docenti ai quali l’ho inviato, e alcuni dei quali ne hanno anche richiesto un’altra copia per la biblioteca della loro università, o dedicatomi recensioni cartacee su riviste specializzate, e in alcuni casi si è addirittura ipotizzato di usare il mio libro, o parti di esso, come testo d’esame. Insomma, direi di essere riuscito nel mio intento. Essendo il primo severo giudice di me stesso, ho spesso la tendenza ad assumere un tono dimesso quando invitato a parlare di me e di ciò che faccio; ma mi sa che stavolta sono “costretto” a riconoscere di aver fatto un discreto lavoro.
Come e quando è nata la tua passione per la scrittura?
Come detto, il genere nel quale intendo cimentarmi è la saggistica. Ne consegue che la mia cosiddetta “passione per la scrittura” non esisterebbe senza la passione per lo studio. Ho sempre letto e studiato relativamente tanto, anche se, devo ammetterlo, non sempre con piacere. Ad ogni modo, è bene tener presente che per scrivere occorre studiare molto, più di quanto non si evinca dalla lettura del libro in sé. Fare ricerche, spulciare testi e riuscire anche a frenare la tentazione di dire tutto ciò che si vorrebbe, sono dei passi fondamentali per chi predilige (specie nel caso dei saggi) un’analisi senza pretese di completezza ma al contempo più precisa e concreta. Infine, scrivere significa anche imparare dei dettagli “tecnici”, come stilare una bibliografia o apporre le note a pie’ pagina (è importante che un libro presenti  una sua “pulizia” anche da un punto di vista formale).
Parlaci di questo tuo libro “Giochi ringhistici…” e del messaggio che vuoi far arrivare ai lettori tramite esso.
Cominciamo dall’inizio: guardare il wrestling significa, in primo luogo, accendere la tv e trovarsi dinanzi a delle (situ)azioni ambigue. Mi spiego con un esempio: Tizio sferra un pugno a Caio, il quale, nonostante il colpo l’abbia visibilmente mancato di almeno venti centimetri, reagisce coprendosi il volto con le mani e gridando come se qualcuno lo stesse scotennando vivo. Fin qui nulla di strano: è cosa risaputa che il wrestling sia uno spettacolo che mette in scena una lotta più simbolica che effettiva. E tuttavia, ecco che, pochi istanti dopo, Tizio sferra un secondo pugno a Caio, ma questa volta spaccandogli la faccia. Cosa può significare? Forse che poco prima abbia visto male? Certo che no, non si era trattata di una svista. E per dimostrare come il primo ed il secondo colpo non debbano necessariamente escludersi l’un l’altro, proporrò ora alcune tesi:
1) Tizio e Caio sono stanchi. Si sta combattendo ormai da molti minuti, e così, anziché sferrare i colpi a tre centimetri dal mento del proprio complice/avversario, al lottatore può anche capitare di sbagliare una manovra per difetto o per eccesso, ledendo involontariamente l’altro;
2) Tizio ha eseguito il primo colpo così male che il suo complice gli ha sussurrato un’offesa tale (“razza di incompetente”... per usare un eufemismo) da beccarsi di tutta risposta un vero pugno sul grugno;
3) tra il primo ed il secondo colpo non c’è una vera relazione di causa/effetto. Semplicemente si era stabilito in anticipo di mostrare il sangue al pubblico per conferire un po’ di pathos all’incontro;
4) non è stato Tizio a ferire Caio, il quale si è auto-inferto un taglio allorquando si è messo le mani sul volto a seguito del primo colpo;
5) tra i due contendenti c’è della ruggine, litigarono già in passato, tanto da ripromettersi, prima del match, di colpirsi con crudeltà e tuttavia cercare di mascherare la cosa con altre manovre vistosamente non crudeli;
6) i due lottatori sono grandi amici, o magari parenti, si vogliono bene e il sangue è finto (sarebbe abbastanza raro utilizzare del sangue finto per un pugno, ma è senz’altro anch’essa una possibilità).
Potrei continuare ancora per molto, ma penso che ci siamo capiti. Questi pochi scampoli d’azione sembrano quasi un compendio del wrestling: una pratica travestita da spettacolo di bassa lega in cui non è dato sapere neppure chi giochi, chi faccia troppo sul serio, chi segua il “copione”, chi lo infranga per sbaglio e chi colpisca qualcuno con l’intenzione di fare del male (che, detto tra parentesi, sarebbe pure reato...). Se tutte queste ipotesi sono possibili, tuttavia solo una è vera. Quale, ovviamente, non è dato saperlo. E quindi? Cosa fare? Non far niente dinanzi ad un reato avente luogo in bella mostra sotto i riflettori? O denunciare una rissa per poi venire sbugiardati da un po’ di sangue finto e fare la figura degli allocchi? Qui, infatti, c’è sempre il rischio di bollare i due contendenti come bestie sadiche quando magari si è trattato semplicemente di due parenti che stavano solo recitando una parte; ma parallelamente c’è anche il rischio di sottovalutare una violenza tra parenti, quando il fatto di essere cugini , cognati o altro, nel wrestling, non esclude a priori la possibilità di un litigio che sfoci in rissa. Ma sarà poi reato? O sarebbe forse più appropriato parlare, come faceva il sociologo francese Roger Caillois, di “degenerazione dell’agon”? Ad ogni modo, che sia una cosa voluta oppure no, pare sia proprio una tale confusione l’arma principale del wrestling, quella che scatena accese polemiche, arringhe e apologie in tutto il mondo e dibattiti sul web. E poi non dimentichiamo che siamo in America, casa e patria della “strategia della confusione”, dove simulazione e dissimulazione (che non sono affatto sinonimi) si confondono.
Quanto all’altra cosa che mi si chiedeva, il messaggio, rimando a più in basso.

Ma chi è Andrea Corona nella vita di tutti i giorni?
Nessuno di speciale, credimi, non credo di avere “l’X-Factor”… Scherzi a parte, non saprei… Tutti quelli che mi conoscono di persona, chissà poi perché, si affezionano tanto e facilmente a me. In effetti ho la fortuna di essere stimato e benvoluto praticamente da tutti quelli che mi conoscono di persona. Sono tutti concordi nel descrivermi come un giovanotto studioso, coscienzioso, giudizioso, equilibrato; ma anche molto simpatico. Che dire? Dinanzi a tanta considerazione, io non ho nulla da obiettare…  Da par mio, comunque, mi considero innanzitutto un tipo assai curioso, e non nel senso del chiacchiericcio, ovviamente, ma nel senso della “curiositas” circa i “cur”, i perché, delle cose. Da piccolo dicevo di voler fare l’archeologo, ed oggi sto per conseguire la laurea specialistica in filosofia. Evidentemente sento il forte richiamo dell’archè
Hai progetti per il tuo prossimo futuro di scrittore?
Per il mio futuro remoto, forse; per quello prossimo, francamente non saprei, e comunque non direi… I “progetti”, e con essi la progettualità, sono, da un punto di vista etimologico e concettuale, estremamente filosofici (e non mi dilungo oltre, ma chi ha orecchie da intendere, intenda). Per fortuna non sono un calciatore e non sono costretto a dare tutto subito, non so se mi spiego. Se fai il calciatore, all’età di venticinque anni magari sei già un veterano, e a trenta sei già un “vecchietto”. Viceversa, se vuoi fare il filosofo, a trenta sei ancora un poppante, e a trentacinque appena un giovanotto. Ciò che sto cercando di dire – e qui l’attenzione deve diventare massima – è che la filosofia è un paese per vecchi. E che i filosofi hanno i capelli bianchi (o non ne hanno proprio più). Non sarà forse una legge assoluta, ma è bene partire comunque da questo presupposto. Facciamo un esempio: chi volesse studiare (e intendo studiare sul serio, come si deve, studiare per poi eventualmente insegnare) autori quali Cartesio, Pascal o Leibniz, non può certo limitarsi a leggere le loro opere. Occorre confrontare le varie traduzioni italiane tra loro e con le versioni francesi, tedesche e latine; ma neppure questo è sufficiente. Occorre studiare, oltre al francese, al tedesco e al latino, anche la storia del pensiero scientifico, ovviamente. E come prescindere dallo studio delle lotte di religione? Si tratta, già che stiamo entrando in argomento, di autori imbevuti di letture religiose, e pertanto, sarà bene anche studiare tutti, o quasi, i libri che compongono la Bibbia. E insomma, studia studia, qui passano gli anni e le tempie cominciano a diventare bianche. Con ciò, non escludo a priori l’ipotesi di pubblicare qualche altro saggio nel corso degli anni Dieci, ma se “Giochi ringhistici” è più prossimo al saggio socio-semiologico che non a quello filosofico tout court, è probabile che, prima di scrivere dei saggi più “tosti”, ce ne voglia… Io comunque non ho fretta, e lo dico anche agli altri giovani autori (soprattutto saggisti): state calmi, che tanto nessuno ci corre dietro. A che serve scrivere libri su libri? Pensiamo a Gadamer, il quale ha fatto il filosofo fino all’ultimo, fino al Duemiladue, vale a dire fino alla veneranda età di centodue anni. Dimostrare di essere dei giovani brillanti… e per cosa? Lo ripeto, non mi interessa dimostrare di avere l’X-Factor e non sono un calciatore. Smettere, per un calciatore, significa appendere le scarpe al chiodo quando si è “nel mezzo del cammin”, ma un filosofo, a quel punto della sua vita, sta appena iniziando a carburare. Se poi pensiamo ancora a Gadamer, ci rendiamo conto come i trentaquattro anni di età non costituiscano necessariamente un mezzo del cammin, ma appena un terzo…
Io ti saluto e ringrazio. Vuoi aggiungere qualcosa?
Ribadisco che sono io a dover ringraziare te. Aggiungo, in conclusione, ciò che non ho detto poc’anzi quando invitato a parlare del “messaggio”. Circa il messaggio ai lettori, mi sento di dire innanzitutto che è molto importante uscire dalla condizione di “analfabetismo”, perché ad utilizzare parole e frasi sempre troppo semplificate si rischia di atrofizzare anche le capacità di raziocinio, di analisi, di sintesi e di giudizio. A frasi banali corrispondono anche pensieri banali, col rischio di cadere nell’orwelliana “neolingua”, la cui efficacia risiede nel denominare concetti appena simili come sinonimi, col rischio di perdere la concezione della complessità delle cose, e cioè la ricchezza delle cose stesse, e di non cogliere la differenza “nelle” cose (non dimentichiamo che “la differenza nell’identico” è stato uno dei primi, e più fondamentali, concetti che la filosofia greca abbia partorito). Facciamo un esempio nazional-popolare: quando un calciatore, un giornalista sportivo o un semplice tifoso afferma che “i gol fuori casa valgono il doppio” cosa vuol dire? Forse che, a seguito di uno 0-0 casalingo, la squadra che perde 3-2 in trasferta passa il turno? O forse che se perde 2-1 prolunga la partita ai tempi supplementari? Certo che no, basta infatti dedicare pochi secondi all’argomento per rendersi conto che i gol segnati in trasferta non valgono davvero il doppio. E allora? Come la mettiamo? Sfido chi legge a trovare la “soluzione”, che è ovviamente molto semplice, eppure sarebbe interessante cronometrare quanto tempo ci si impiega nel trovarla e nel metterla per iscritto in modo conciso ed efficace. Questo per dire come siamo poco allenati e abituati a pensare e a comunicare correttamente anche un messaggio relativo a qualcosa che già conosciamo perfettamente ma che non sappiamo tradurre in parole. Ebbene, anche il wrestling, divenuto oramai nazional-popolare anch’esso, soffre di una condizione di analfabetismo. Così come calciatori, giornalisti e tifosi, pur conoscendo le regole del calcio, non sentono il bisogno di imparare a comunicarle, anche nel wrestling si soffre di questo stesso male, col risultato che molti scambiano il wrestling per un banale spettacolo di botte finte e poco più; quando invece, per capirlo, sarebbe forse più appropriato ricorrere a dei concetti più “raffinati”, nonché, come scrivo in conclusione del saggio, ad uno “sforzo ermeneutico”.  E ciò vale per capire il wrestling come vale per capire ogni altra cosa. 







LA RENCENSIONE...





Quando mi è stato proposto di recensire questo libro, che è un saggio vero e proprio di un fenomeno contemporaneo, temevo di dover leggere qualcosa di noioso e che poteva non essere di mio interesse. Mi sbagliavo e di molto!
Ho trovato questo libro di Andrea Corona un vero e proprio viaggio nel mondo del pro wrestling in una chiave filosofico-linguistica ( anche linguaggio non verbale o scritto, ma l'espressione del corpo) che seppur approfondita risulta comprensibile a tutti e risulta pure molto piacevole.
Il pro wrestling è un fenomeno mediatico che torna spesso ad impazzare nelle tv, sui ring e nelle case di tutto il mondo. Sì, perché perfino i bambini ne sono profondamente affascinati. E i personaggi sono rispettati perché a volte incutono una certa stizza, ma soprattutto perché sono molto amati alla stregua dei campioni di calcio e dei personaggi del cartoni animati, come super eroei anche se a volte sono proprio anti-eroi…per finta.
Il lottatore di pro wrestling è un vero e proprio personaggio pubblico che recita la sua parte in ogni momento della sua vita, se è in pubblico. Egli è infatti tenuto al segreto inviolabile di tutto ciò che lo circonda e questo kayfabe è una delle chiavi del successo di questo gioco-sport-commedia in bilico tra un ruolo attoriale e uno attanziale. Un modus vivendi quindi, fatto di regole e apparenti non regole.
Lo scopo di questo libro, ci racconta Corona, è proprio dimostrare che il professional wrestling è un gioco par excellence, dove il linguaggio del corpo ha una funzione importantissima. In questo show, perché è uno show, ogni gesto deve apparire teatrale e perfettamente comprensibile, sempre e immediatamente. Una recita a canovaccio che ricorda un po’ la Commedia dell’arte. Ma anche il fisico di ogni personaggio è fondamentale, deve infatti identificarlo  con chiarezza con tutte le sue note e care caratteristiche.
Il pubblico che assiste a queste costruite e allo stesso tempo inaspettate performance vuole divertirsi, ma non desidera realmente lo spettacolo crudo e sadico. Si sa, in fin dei conti, che è tutto un gioco… Un gioco che ha bisogno della complicità di tutti: il trucco c’è e si vede ed è questo il bello!
Per chi ama questo mondo, ma anche per chi ne è solo incuriosito, questo libro scritto con acutezza attraverso un viaggio nello studio dei processi e delle ricerche filosofiche e linguistiche che imperniano con questo affascinate  gioco par excellence, non può mancare!




Commenti

  1. E brava Irene! Ti occupi di un po' di tutto, così anche noi uomini possiamo trovare qualcosa di decente!
    Maurì

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