Si fa presto a dire Vampiro... ospita Novelli & Zarini + Racconto
Seriale edito da Chichili Agency |
Lo
stile di scrittura di Novelli&Zarini è lineare e visivo, le loro trame
mediano al ritmo della suspense il senso dell’indagine scientifica con
personaggi che si muovono tra le pagine come attori su un set cinematografico.
Hanno pubblicato tre gialli.
L’ultimo
di
Novelli &
Zarini
Notte senza luna.
Il cielo, una lastra nera
impenetrabile. La pioggia gli scivolava sopra e colava giù, torrenziale. I
fulmini lo scheggiavano appena, sfregi prestissimo rimarginati. Il tuono gli
implodeva dentro in un boato sottovuoto.
Tutto quanto appariva senza
profondità, un enorme fondale di scenografia, piatto, da guardare, ma senza
poterne provare la consistenza.
Anche il tendone del piccolo
circo.
Una decalcomania sottile e
giallastra, incollata sul buio.
Alla sua sinistra, sparute auto
dentro il cimitero di un parcheggio. Carcasse silenti, pronte a resuscitare con
un giro di chiave.
La foresta confinante, vaga,
risucchiata, gli alberi inspessiti dalle tenebre fino a diventare pilastri
immarcescibili.
Una pista soltanto.
L’angusto, soffocante spazio di
quel piccolo tendone non se ne poteva permettere un’altra.
La sabbia puzzava di sudore e di
secrezioni feline. Le impronte leggere e lisce degli acrobati demolite da orme
di animali pesanti, troppo ingombranti per quel cerchio bardato da tante
piccole luci sferiche.
La goccia d’acqua di Chopin attaccò su un disco rovinato, maltrattato
da una puntina antica.
Martellante, title track di una storia sempre identica.
L’immobilità del tempo.
Gli spettatori erano maschere in perenne
penombra, teste senza corpo su panche di legno.
Lo spartiacque di un tendone ruvido
di velluto porpora preavvisò l’ingresso.
L’attrazione più attesa.
Bruma.
Prese ad allargarsi sulla pista,
nascondendo il visibile.
Nebbia.
Prese a sollevarsi, guidata
compatta in una sola direzione, il centro della pista.
Bocche tagliate sulle maschere.
Labbra sottili rotonde, a rappresentare un suono di meraviglia.
Dalla nebbia emerse una figura.
Nera.
Un inchino, togliendosi il
cilindro con una mano, muovendo il mantello dall’interno scarlatto con l’altra.
L’illusionista.
Il suo numero non aveva eguali.
Ma lui non aveva celebrità, né onori, copertine di giornali o interviste.
No. nulla di tutto questo.
Restava confinato nella
mediocrità di quel circo itinerante. Di paese in paese. Le città, nemmeno
sfiorate. Nemmeno pensate.
Due inservienti. Flaccidi, di
impaccio anche loro per quel cerchio di sabbia che dava l’impressione di
restringersi ad ogni minuto che passava.
Trascinarono un vetro su ruote.
Largo e massiccio.
L’illusionista lo indicò con un
gesto della mano, quindi si levò mantello e cilindro, consegnandoli a uno dei
due servitori.
Era magro, alto, ossa e carne dentro
un vestito d’ebano.
Qualcuno del pubblico provò a
distinguerne il volto.
Impossibile.
Giochi di ombre lo nascondevano.
Lo difendevano dalla curiosità.
C’era un’atmosfera lugubre sulla
pista. I pochi colori esistenti, svaniti.
Era come se la notte solida
fuori, fosse penetrata dentro.
La pista stava per essere
stritolata tra le spire di quelle tenebre.
L’unica cosa che emetteva un
luccichio di tanto in tanto era il drago incastonato sul medaglione al collo
dell’illusionista. Barlumi fugaci, più che altro scherzi della mente.
L’illusionista picchiò sulla
placca trasparente, due volte.
La consistenza. Inaccessibile.
Il palmo della mano poggiata sul
vetro. Poi, pressata, a desiderare l’inarrivabile.
Attraversarlo. Andare oltre il
comprensibile e il possibile.
La mano diventò prima braccio,
poi, tronco, gamba. Infine, corpo intero. Dall’altra parte.
Smaterializzazione.
Silenzio. Nessun applauso.
Le maschere sedute erano prive di
parola.
Dov’era il trucco?
Perché un illusionista è,
inganno.
I due inservienti vennero a
riprendersi la barriera su ruote.
Fecero fatica a spingerla
indietro. Ad uno di loro saltò persino il bottone di una giacca troppo stretta
e logora.
L’illusionista rindossò il
cilindro, quindi il mantello.
Non si spostò dal centro della
pista.
Allargò le braccia con un
movimento pigro, trascinando con sé i lembi del mantello.
Croce blasfema di se stesso.
Un Cristo vestito a festa.
Le braccia portate più su, oltre
l’altezza delle spalle.
Il patibulum di una croce spezzato, vinto da una forza superiore.
Di colpo, quasi prendendo
velocità, le braccia calarono.
Il pubblico riacquistò la voce.
Il solito O, disegnato sulle teste senza corpi.
Il mantello, senza consistenza,
cambiò forma, traiettoria nel ricadere, con l’aria che lo invase, gonfiandolo
come il cappuccio di un cobra. Si acquietò a terra, come una fiera sazia.
Ratti.
Vennero fuori dal raso, a frotte,
sparpagliandosi.
I loro squittii si mescolarono a
grida di orrore, di repulsione.
Le teste si ricordarono di avere
anche un corpo. Si alzarono, qualcuno montò sulle panche, accartocciandosi su
stesso, proteggendosi col nulla.
Ma i topi non superarono il
confine della pista.
Centinaia di occhi rossi in
movimento, peli irsuti a scavare il vuoto.
Le code rastrellavano la sabbia,
tracciando segni ancestrali.
Richiamata.
L’orda immonda si raggruppò. Una
cuspide che puntò dritta al mantello.
Cappa che si sollevò appena, a
riprendersi ciò che aveva generato.
Movimento sotto il tessuto.
Altro a prendere forma, a innalzarsi.
Gli spettatori non ebbero nemmeno
più la forza di sorprendersi.
L’illusionista.
Il cilindro sulla sua testa, il
suo corpo esile ammantato di nero.
Questa volta furono applausi.
Ma mancava ancora un numero.
Altre rotelle tracciarono una
direzione in divenire sulla sabbia.
Una gabbia.
L’illusionista la indicò.
Via il cilindro e il mantello.
La libertà quasi subito segregata
dietro le sbarre, mani e piedi oppressi da catene.
Uno degli inservienti sigillò
l’entrata.
L’illusionista era in trappola.
Un cenno col capo.
I due inservienti si
allontanarono.
Nessun telo a coprire la gabbia,
ma quasi subito il pubblico si trovò costretto a strizzare gli occhi.
Nebbia, oltre le sbarre.
Un velo che divenne trama fitta.
Silenzio.
Un ululato spaccò la quiete. Si
levò alto, terribile, profanatore.
Un lupo.
Si muoveva nervoso dietro le
sbarre.
Occhi gialli magnetici,
fosforescenti puntati oltre il cerchio.
Verso la normalità.
La coda sbatteva contro il ferro,
le zampe battevano sul fondo della prigione, quasi ad avvertirlo della
presenza.
Con un po’ di timore i due
inservienti aprirono la gabbia.
Il lupo balzò fuori.
Il terrore dei presenti si fece
tangibile, la stessa aria lo inspirò mettendosi a vibrare in refoli bollenti.
Le maschere parvero incrociarsi, sovrapporsi, dentro attimi dominati dal caos.
Un altro ululato paralizzò il
circo.
Prima però che gli spettatori
potessero puntare le loro attenzioni sull’animale, questi sparì dentro la
solita bruma.
Quando si dissipò, l’illusionista
era lì. Al centro della pista.
Applausi. Tanti, numerosi di
sollievo.
Il preludio di Chopin continuò a
scavare nelle menti dei presenti anche quando lo spartiacque di velluto porpora
ghermì l’illusionista.
Un camerino.
Un semplice angolo buio, a dire
il vero.
Un tavolo a muro, stretto. Una
lingua di legno tormentata dalle tarme, come la seggiola dallo schienale a
conchiglia.
L’illusionista si sedette.
Il cilindro posato da un lato.
Le dita scarne tracciarono i
contorni del viso.
Tastarono l’incarnato pallido.
Blue moon, pallida luna perché…
Una vecchia canzone, come tante.
Troppe.
Una confusione di note e di
parole nella testa.
Di facce e anime stuprate.
Il disagio mentale di chi aveva quasi
seicento anni.
Lui era l’ultimo della sua stirpe.
Le dita si infilarono tra i
capelli corvini. Bui, privi di ogni riverbero.
Ma anche il primo.
Il drago al collo parve destarsi,
scuotersi, animarsi di vita propria.
L’alfa e l’omega di un mondo che non esisteva più.
Il mostro di un tempo, l’essere
temuto e rispettato.
Un fenomeno da baraccone, oggi.
Le straordinarietà spacciate come
magie.
Una progenie intera ridicolizzata
da libri e film di ultima generazione, ridotta a moda per ragazzini annoiati,
dopo che per secoli le pagine dei libri avevano narrato mito e superstizione
quasi con devozione.
Una progenie che nel dì del tempo
era, il Male.
Un male adesso surclassato da
crudeltà peggiori.
Un mostro antico ai margini di un
mondo nero, più buio delle tenebre di una volta, peggiore di un cuore che non
batteva più da secoli.
La bocca si dischiuse
leggermente. L’indice prese a scorrere sulle gengive superiori.
I canini, retrattili. Stigmate di
eternità.
Vlad, il capostipite e l’ultimo dei vampiri.
Un tempo a difesa della Chiesa,
ora, un emarginato di periferia.
Gli occhi neri si persero nella
convinzione sempre più forte di una volontà.
Rinnegare l’immortalità.
Un giorno l’avrebbe fatto.
Avrebbe guardato sorgere il sole.
Le mani trascinarono il cilindro
lungo il tavolo, fin sotto gli occhi.
“Abra-cadabra.”
Tutte le dita a rovistare dentro,
ad afferrare qualcosa.
A tirarlo fuori.
Un fenomeno da baraccone…
Tenuto per le orecchie, un
coniglio bianco.
Vlad lo strinse al petto. Chiuse
gli occhi.
La testa leggermente inclinata, la
guancia fredda a contatto con l’animale, per lasciarsi invadere dalla sua
paura.
La bocca si spalancò, i canini scesero
e affondarono nella carne.
L’ultimo della sua stirpe…
Il sangue schizzò con violenza su
uno specchio ovale e prese a scendere.
Sopra un’immagine riflessa che
non c’era.
Per leggere tutto lo "speciale vampiri"
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Sempre suggestivi Novelli & Zarini ^^
RispondiEliminaL'ultima frase fa il racconto
Irene
http://irenevanni.blogspot.com