Gli incipit dei racconti che passano la prima fase del Concorso SUSPENSE TALE!


Da domani ricordatevi di votare il vostro racconto preferito!!!

 
Racconto numero 17
Nefaste conseguenze
                                                          (L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)


La strada alle spalle della drogheria era dissestata e ormai inutilizzabile. Le alluvioni e i continui scavi dettati da un’edilizia selvaggia avevano reso il terreno disagevole e disseminato di buche. Nonostante ciò, nes-suno aveva manifestato il minimo interesse a prendere qualche provve-dimento. Le proteste del vecchio Sheridan erano valse a ben poco. La contea di Wilcox non avrebbe stanziato un solo centesimo per riabilitare la strada e, per qualche oscura ragione, persino gli stessi cittadini a-vevano approvato quella decisione, sostenendo che si trattava di un in-tervento dispendioso e poco gratificante. Solo il vecchio Sheridan, pro-prietario dell’omonima drogheria da più di trentacinque anni, non era intenzionato a darsi per vinto. Il senso civico che lo animava reclamava a gran voce giustizia. Da quando era morta sua moglie, sette mesi prima, era sprofondato nell’apatia più totale; l’unica sua preoccupazione era stata quella di sopravvivere con un dato di fatto così irreversibile, quale l’assenza definitiva di Mary Elizabeth. Il resto gli scivolava addosso con indifferenza. Sheridan si era spesso interrogato sul significato della morte ed era sempre arrivato ad una stessa e insoddisfacente conclusione: agli esseri umani è preclusa la conoscenza di tale mistero. Ed infondo era inutile prendersela con Dio, perché a suo giudizio nemmeno lui ne sapeva molto di più degli uomini. Quella sera, prima di andare a dormire, pregò per l’anima pia di sua moglie e poi tornò con la mente alla strada. Era diventata un’ossessione per lui, ma promise che non avrebbe gettato la spugna fino a quando la sua insaziabile sete di giustizia non fosse stata debitamente ricompensata.
La mattina seguente, mentre serviva un cliente piuttosto esigente, Sheridan colse qualche battuta di una concitata conversazione tra due uo-mini che stavano esaminando i prodotti della vetrina all’esterno del ne-gozio.
“…ho sentito dire che nella strada si è persa una bambina.” stava dicendo il primo uomo.
“Chi te l’ha detto?” ribatté il secondo, con una certa diffidenza.
“Mio figlio. Lavora al tribunale e dice che è qualche giorno che gira voce che una bambina sia rimasta intrappolata in quella strada, ma a quanto pare ancora non è stato ritrovato il corpo.”
“Brutta faccenda.” commentò l’altro.
“Eh, già!”

Racconto numero 18
L’AMORE CORRE IN RETE
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)


Dalla mail del 28 maggio 2005.
- Ciao Sunshine, cosa dire alla donna che ha stravolto la mia vita? Vivo pensando a te, sei troppo bella, il mondo intero dovrebbe conoscerti per arricchirsi del tuo spirito...

Elisa, architetto di 45 anni nel maggio del 2005, sembra una donna soddisfatta, fa la libera professionista, guadagna bene, ha un fisico prosperoso e un viso interessante; è colta, comunicativa, simpatica e intelligente. Ha un marito coetaneo, di piacevolissimo aspetto, una relazione che dura da moltissimi anni senza figli, una casa di gusto. Fanno molti viaggi, anche se non troppi. Hanno anche una barca per l'estate e godono di ottima salute... Lei ha un amante con cui ha intrecciato una storia di sesso e cervello che dura da moltissimo tempo. Storia intensa e passionale. Lui  è un macho di qualche anno più vecchio di lei, primitivo ma socialmente inserito, affascinante e generoso, che le ha fatto perdere la testa... L’amante ha una famiglia che usa come una facciata di comodo dietro cui nascondersi, finché la moglie lo scopre e lo abbandona al suo destino. E a questo punto, Elisa e Matteo vanno a vivere insieme felici e contenti finché morte non li separa?
NO! Il macho rampante ha il terrore di nuovi legami ufficiali, delle responsabilità; gli piace fare sesso solo se è proibito, nel talamo ufficializzato perderebbe la vis amatoria. A questo punto Elisa decide di trovarsi un altro amante (col marito c'è un rapporto di stima, ma corroso dalla caratterialità di lui e dall'esuberanza di lei).
Ma dove? A causa dell'amante, ormai ex e del marito, lei non frequenta alcun luogo di incontro interessante… e poi tutti la conoscono... Un guizzo: una chat naturalmente. Ne ha sentito parlare dai clienti, dai figli degli amici, descritta con quel tanto di ambiguità che non ha mai avuto il coraggio di avvicinarsi, nè il desiderio...ora può farlo: è legittimata a creare il suo avatar per entrare in questo salotto virtuale, non può mica presentarsi con nome e cognome, chissà chi potrebbe incontrare oppure qualcuno potrebbe riconoscerla.
Ebbene Elisa diventa Cassandra, giusto un nick per presentarsi anche senza parlare e stabilisce la prima regola di questo viaggio: il primo screening, per eliminare una quota di possibili “cavie” è la valutazione della loro ortografia e sintassi, chi non sa scrivere non è persona da prendere in considerazione!

Racconto numero 19
Caccia mortale
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
La sete di vendetta l’aveva condotta dritta in trappola.
Il respiro affannoso sembrava rimbombare in quel magazzino immenso e colmo di oggetti di ogni tipo.
Le ombre silenziose nella soffusa luce rossastra delle lampade di emergenza, sembravano giganti insanguinati.
Si nascondeva dietro una cassa di legno che puzzava di marcio, mentre cercava di riprendere fiato per affrontare l’ennesimo attacco dell’assassino.
Per impedirle di fuggire.
Per ucciderla.
Trovare l’uscita in quel labirinto oscuro ed evitare allo stesso tempo il killer che le dava la caccia, era come attraversare a nuoto un mare in tempesta.
Un suicido.
Il detective Lily J. Bradley si era gettata in quella bufera spinta dall’odio, senza riflettere sulle conseguenze, senza pensare a un piano per sopravvivere.
Ora era troppo tardi.
La pistola le era sfuggita durante la prima colluttazione, quando lui aveva cercato di pugnalarla, con lo scopo di renderla inoffensiva, per poterla torturare, sino a ucciderla, in un rituale sessuale che era il suo modus operandi.
Si era comportata come una recluta alle prime armi, si era lasciata sorprendere, e la ferita al braccio e la slogatura alla caviglia, ne erano il risultato, un lento stillicidio che la stava indebolendo.
La testa pulsava con violenza come se mille tamburi echeggiassero le noti della sua marcia funebre.
Se non avesse trovato una soluzione non sarebbe sopravvissuta.
L’immagine del cadavere della sorella balenò nella mente stanca. Spezzato con spietata follia, senza alcun rispetto per la sua dignità di essere umano. Il diritto di esistere, amare, distrutto dai giochi sadici di un predatore. Era una lama dritta al cuore. La rabbia prese di nuovo il sopravvento e una sferzata di adrenalina riportò energia al corpo esausto. Si alzò zoppicando e con circospezione si diresse a tentoni verso l’unica fonte di luce bianca in quell’ambiente sanguigno.
La furia per quell’ingiustizia la spinse a continuare a camminare tra le tenebre minacciose, consapevole che a ogni angolo, lui poteva essere in agguato, pronto a trasformare Lily nell’ennesima vittima del Collezionista d’Occhi, come i giornali avevano soprannominato il soggetto ignoto a cui dava la caccia.
Ogni ombra poteva nascondere quell’assassino sociopatico, pronto a colpirla in quella partita mortale.
Tutto era cominciato quattro mesi prima, quando la prima vittima era stata ritrovata nel parco. Stuprata, torturata, mutilata. Ogni parvenza di umanità era stata sradicata con ferocia in quel giovane corpo, che un tempo era stato pieno di vita e di progetti per il futuro.
Il Detective Bradley era stata incaricata delle indagini. Non era il primo omicidio su cui investigava, ed era una criminologa che periodicamente partecipava a corsi di aggiornamento a Quantico.
Nel momento in cui era giunta sul luogo del ritrovamento, aveva compreso che non era l’opera del solito assassino occasionale.

Racconto numero 20
Era una notte buia e tempestosa
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Era una notte buia e tempestosa…
Era una notte...
E poi? No, non funziona, non va. Eppure questo è un inizio classico per un racconto thriller/noir. Gli ingredienti ci sono tutti: la notte, il buio, la tempesta. Però non mi viene più niente. Giro e rigiro le parole nella mia mente, ma la notte è sempre più buia, senza via d'uscita. Devo assolutamente scrivere questo racconto, mi sono impegnata con l'editore, mi ha dato anche un anticipo, che tra l'altro ho già speso. Entro domattina alle nove il mio racconto deve essere nella sua casella di posta elettronica, pronto per essere pubblicato sulla rivista on-line “Thriller on the rocks”. Certo che un nome più cretino non lo poteva mica trovare: che vorrà dire poi? Mah. Comunque lui mi paga e io scrivo. Allora, dove ero arrivata? Era una notte... Ecco, ero ancora qui. Ma cosa può mai succedere in una notte buia e tempestosa che non sia già stato raccontato? Oramai si è scritto di tutto, si è immaginata qualsiasi situazione. Difficile inventare qualcosa di originale. Soprattutto se rimango in questo appartamento caldo, afoso e brutto. Sì, perchè il monolocale dove abito l'unica cosa che potrebbe ispirare è “I Miserabili” di Victor Hugo. Sempre che uno non si affacci alla finestra, altrimenti potrebbe riscrivere “Il muro”, o anche “La nausea” di Sartre. Ma lasciamo stare, devo concentrarmi. Certo che questo incipit non mi porta proprio a nulla, magari potrei introdurre un altro elemento. Uno sconosciuto che bussa alla porta. Bello, questo è bello, fa proprio paura. Intanto vado a chiudere la finestra perchè si è alzato il vento e le imposte sbattono. Poi se si rompono i vetri chi li ripaga al padrone di casa? Non io, al momento non ho nemmeno i soldi per l'affitto. E' essenziale che finisca questo racconto. Alla finestra sento che l'aria che si è fatta umida, e odora di pioggia. Sta arrivando un temporale. Che bella cosa, magari con il fresco il cervello lavora meglio. Arriverà tra poco, è meglio chiudere bene. Ci sono acquazzoni che se gli lasci uno spiraglio ti allagano la casa, poi chi lo sente quello del piano di sotto. Come quella volta che .. ma lasciamo stare. Devo ritornare al racconto. Mi risiedo davanti al computer. Questa frase ormai mi si è tatuata nella retina. Forse dovrei cambiare storia. Cerco di pensare ad un'altra strada, ma l'unica che mi viene in mente è quella adiacente a casa mia, che per lavori in corso hanno chiuso e sono stata costretta a parcheggiare ad un isolato di distanza. A pagamento. Io naturalmente non ho mica pagato, spero domattina di non trovarmi i ceppi attaccati alle ruote. Problemi, sempre problemi, ma come fa una povera disgraziata a scrivere con tutti questi problemi per la testa. Dunque, è meglio che la smetto di pensare a strade in generale. Avevo introdotto un elemento: uno straniero che bussa alla porta. Intanto fuori sembra scatenarsi l'inferno. Un tuono più forte degli altri fa tremare i vetri, seguito da uno scroscio d'acqua improvviso e violento.

Racconto numero 21
Amélie
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)

Oh , Amélie.
Dolce, cara, splendida Amélie.
Ti guardo, ti ammiro, mentre giaci sul mio letto, sulle coperte rosse, rosse come il peccato, rosse come la passione che ci ha appena consumato; mi perdo nel tuo sguardo fisso nel mio mentre accarezzo la tua pelle delicata e pallida, così diafana che pare di porcellana, così finemente lavorata eppure così fragile.
Dolce, cara, splendida Amélie.
Il mio amore. Accarezzo le tue labbra socchiuse con le mie, senza chiudere gli occhi per paura di perderti, prima di ritrarmi e ammirarti ancora. Prima di immaginarmi le nuvole scorrere nel loro azzurro, e nel maelstrom che quel vortice blu circonda, una lunga discesa fino ai recessi più intimi di te. E non posso fare a meno di chiedermi se, anche adesso, anche ora che giaci qui con me, ti ricordi ancora del tuo passato. Ti ricordi Simonette? Me ne parlasti tu, non più di qualche ora fa. Simonette, la tua cara amica fin dall’infanzia. La ragazzina dai capelli rossi, vivace, con cui ti lanciavi in mille folli avventure tra foreste e castelli, tra principi e streghe, e il tutto nel sicuro tepore dei vostri appartamenti, rinchiudendo quei mondi fatati nella vostra fervida mente di bambine. Lei, con cui fin da piccola hai condiviso il tuo stesso sangue in un patto infantile, con quel suo piccolo coltellino che si portava sempre appresso, da brava esploratrice. Lei, che condivideva con te ogni segreto, e a cui tu confidavi i tuoi, dai più semplici pettegolezzi, che lei sussurrava alla stregua di importanti segreti capaci di scuotere le fondamenta dell’universo stesso, ai primi amori. Chissà se, già a quell’epoca, quando lei ti guardava con quegli occhi un po’ stralunati, quel lieve sorriso timido, chissà se nei suoi silenzi quando le raccontavi di Mathieu che ti voleva tra le braccia, o di Jean, che ti ha strappato il primo bacio in un bagno del vostro liceo, ti accorgevi di quello che sarebbe successo.
Povera Amélie. Non lo saprò mai. Ma conosco il tuo dolore: ricordo le tue parole cupe e dette a mezza voce, ancora sconvolta dopo tanti anni, che narravano di come lei confidò a te il suo più grande segreto, quando, sedute sulla riva del lago, ti disse che lei non voleva un principe azzurro, ma solo una principessa dagli occhi blu.
Racconto numero 22
Il corridoio delle mansarde
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Donatella accese il pc portatile sulla scrivania antica di fronte a lei, e subito dopo aprì la gabbietta di Maxin: il gatto uscì stirandosi tutto e poi si accucciò nella cesta che Donatella gli aveva piazzato vicino alla scrivania, molto contento e soddisfatto. Quello sarebbe potuta essere la sua casa per qualche tempo, e sembrava più entusiasta all'idea che non Donatella.
Donatella digitò la password sul pc e controllò la posta, mandando il messaggio che avevano concordato prima che partisse in missione.
Poi iniziò a girare nell'ampia mansarda: la porta di ingresso, chiusa dietro di lei, era impenetrabile, non era possibile un'effrazione, ne era sicura, aveva ragione Marco della scientifica.
L'ampia stanza su cui si affacciava la porta di ingresso era luminosa, con i due grandi abbaini sul lato opposto: Donatella esaminò l'angoliera che c'era vicino alla porta, aprendola e guardando la collezione di piatti e bicchieri pregiati che c'era dentro: non c'era nessun secondo fondo dietro.
Maxin si incuriosì avvicinandosi e cercando di entrare nell'angoliera: Donatella lo tirò indietro e poi chiuse il mobile, proseguendo l'esame dell'ambiente.
La libreria occupava praticamente le pareti della stanza, abbassandosi sotto gli abbaini. Tanti di quei libri erano ben noti a Donatella, tra classici e romanzi d'evasione, altri che erano libri molto belli, illustrati, d'arte e di viaggi.
Donatella sorrise con amarezza.
Il cucinino si apriva vicino ad uno dei due abbaini, talmente minuscolo, ma curato e pulito. Maxin annusava, sentiva l'odore di un suo simile, che aveva abitato lì fino a non molto tempo prima.
Il bagno era accanto al cucinino, un po' più grande, essenziale, dove era impossibile nascondere delle cose: adesso era pulito, ma Donatella aveva visto le foto di dopo il fatto e sapeva che sarebbe bastato un po' di luminol per far rivenire fuori quello scempio di sangue, schizzato ovunque e lì in particolare.
L'altra stanza, quella da letto, si apriva da una parete di libri: il letto in stile ottocento, vicino all'altro abbaino, il comò in sintonia con il letto, con ancora le murrine e le statuine di gatti e damine, il vasto armadio in stile veneziano, i quadri appesi alle pareti.
Donatella continuò la sua perlustrazione, passo per passo.
Un colpo secco la fece sussultare. Poi un altro. Maxin si era gonfiato tutto e puntava verso l'armadio, dove due riproduzioni di giardini settecenteschi con fontane splendevano come fossero state dipinte ieri. Donatella aprì l'armadio, rimanendo stupita di come i vestiti fossero stati messi dentro in maniera disordinata, arruffati. E dire che nel comò le camicie e la biancheria intima erano impeccabili, riposte in mezzo a sacchetti di lavanda provenzale.
Toccò con le mani il fondo dell'armadio: sembrava in movimento, in contrasto con la solidità del mobile.
Racconto numero 23
Lacrime
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Sono dentro la cattedrale della vita e, che tutto continui così, è la tragedia. Tutto fuori incessantemente brucia.
Dopo Auschwitz – dicono – scrivere una poesia è un atto di barbarie. Anche un romanzo, credo io. Dunque sono entrato in crisi. La tragedia non mi lascia più il tempo di pensare, ha riempito incessantemente i miei pensieri, la mia esistenza.
Eppure una volta scrivevo, scrivevo tanto e senza fatica. La commistione inenarrabile tra ecologia e potere ha letteralmente massacrato la mia voglia di raccontare. Perché raccontare se nessuno vuole ascoltare?
L’etica è innanzitutto e perlopiù l’orrore autentico per questa realtà, un rifiuto totale di questa realtà. Ho cercato, nel corso degli anni, di denunciarne alcuni aspetti ma il rifiuto parziale è stato una sottomissione a ciò che contestavo. Sono giunto al punto di massima distanza tra me stesso e l’altro da me stesso e devo risanare, senza indugi, questa rottura che martella sul ciglio del mio cuore, o su ciò che resta di esso. Dicono che oggi lo scrittore abbia perso l’ancoraggio al sociale e che abbia smesso di criticarlo. L’ottocento era il secolo della critica, dei grandi romanzi distopici che descrivevano per metafore le situazioni angosciose e di dominio. Chi critica agli scrittori odierni un disinteresse al sociale, non ha capito che le metafore angosciose ottocentesche oggi si sono avverate.
Troppo, e troppo a lungo abbiamo sperato nel miracolo, ma la morte di Dio s’è portata via tutte le speranze, le carezze di un’esistenza autentica e rappresentativa della natura. La cultura si è fatta altro dalla natura, ed io mi sono separato dagli animali. Lo scrittore di oggi non riesce più a distendersi in mezzo a loro, per loro e soltanto per loro Auschwitz è ancora qui, e la poesia si allontana sempre più inesorabile.
Racconto numero 24
Evanescenze
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Le luci si abbassavano conferendo all'asfalto un alone perlaceo, i rumori erano rantolii di una notte da poco iniziata e non consumata. Motori scalpitanti su liscia seta di catrame, notte di incontri e di alcol, consumata al tavolo sporco di qualche bistrot. Parigi esplodeva di colori e sguardi bassi, lingue sconosciute e odori speziati. Qualcuno rallentava accanto ai viali, qualcuno correva di più, due gambe danzavano. Veloci, scattanti, fasciate da denim scuro a sfiorare fianchi sottili, un'armonia rinnovata ad ogni passo.
Tra ombre disegnate da palazzi alti e colmi di insegne, occhi scuri seguono, rincorrono chi non vuole farsi seguire, attendono.
Uno scatolone cade a terra sul ciglio della strada, fascicoli e libri esplodono rovinandosi, le gambe si flettono, un ondeggiare attento fino all'asfalto. Rannicchiata a terra, cercando di recuperare ogni cosa, una ragazza dal volto banale, due occhi chiari sono imprigionati da occhiali con la montatura scura.
Altri occhi sfuggono all'ombra che li avviluppa.
“Dovresti stare attenta agli scalini niña, ma sei fortunata, ti aiutiamo noi.”
L'uomo dal forte accento avanza veloce verso la ragazza, dietro di lui, come segugi affamati, sciacalli di un'esistenza putrida, due ragazzi dal volto macchiato e barbuto.
Movimenti si impongono su fogli e mani, sorrisi storti di denti gialli e rotti. La ragazza non risponde, ha fretta, cerca di riprendere tutto con sé.
“Ti portiamo a casa, tu e il tuo bello scatolone, e potrai ringraziarci.”
Mani sudate le afferrano le braccia, lei non si ribella, cede, chiude gli occhi, ai piedi fogli intrisi di fango. Le gambe cedevoli si lasciano condurre, non danzano più, marciano, noncuranti della loro bellezza si spezzano in movimenti nervosi.
L'uomo fa cenno agli altri due, l'ombra avvolge di velluto ogni figura in una stradina silenziosa. Un lampione gracchia ad intermittenza come un cuore che pulsa, ritmico cela e rivela. Occhi viaggiano tra mattoni scorticati e bidoni colmi. Passi.
“Non dovreste condurre le signore in posti così maleodoranti, non è da gentiluomini.”
Racconto numero 25
SHH
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Ce ne fosse stato uno con un filo di pancetta o con le guance pienotte. O magari con una camicia di colore diverso dal bianco o che fosse fuori dai calzoni. Ma c’era un altro elemento che accomunava i quattro corpi a terra, in disordine sparso, chi a faccia in giù, chi in su: erano morti ammazzati. Di più: crivellati di colpi d’arma da fuoco. Chi gli aveva sparato voleva la certezza di non vederli mai più girare fra i tavoli di un ristorante, distribuendo involtini primavera o wanton o una delle altre mille ricette esotiche. Potevi non sapere dove ti trovavi – anzi, non aveva alcuna importanza : avresti detto a colpo sicuro che si trattava di camerieri cinesi. Freddati all’orario di chiusura, nell’unico locale del ristorante ‘Fiume Giallo’. Uno dei tanti di una Prato che si sarebbe potuta dire di lingua cinese, non fosse che il popolo Han è di poche parole e di molto più eloquenti silenzi. Non era mai successo, nella tranquilla città toscana: un conto è desiderare di vederle sparire, quelle formiche gialle; altro è premere il grilletto della propria esasperazione. A dire il vero, i più sfegatati sostenitori della cacciata violenta dell’invasore dagli occhi a mandorla erano i primi a condannare quella strage, a giurare che mai si sarebbero potuti spingere a tanto. Anche perché temevano l’esplosione di violenza che poteva seguirne. Ma allora…? Avvertimento della mafia cinese? Avvertimento ALLA mafia cinese? Guerra per bande? Il mistero, la paura dell’ignoto acceleravano la frequenza cardiaca della città.
Il commissario Macinotti, strappato ai suoi sogni come un’erbaccia da un prato all’inglese, più che analizzare la scena del delitto scattava con gli occhi una serie infinita di istantanee, da rivedere con calma in ufficio. Smaltito che avesse il sonno.
- Capo, e questa…? - strillò arzillo l’agente Barone: dormiva poco, lui, perché la prima parte della notte la dedicava a monitorare i siti porno-pedofili. Diceva lui.
Macinotti fotografò senza enfasi una grossa sigla, lasciata sul muro vicino all’ingresso da uno spray nero: SHH. Nessuno aveva visto né sentito niente. Il proprietario (almeno ufficiale) del ‘Fiume Giallo’ se n’era già andato a casa, come aveva annotato con falsa noncuranza il Commissario. Subito rintracciato e convocato, per lo meno aveva confermato che la misteriosa sigla non era mai stata presente sui muri del suo ristorante.
Racconto numero 26
L’uomo del destino
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Lucille aprì la lettera con mani tremanti. Sapeva già cosa aspettarsi, eppure ogni volta la paura l’assaliva in maniera diversa. Quella sera le attanagliò la gola, arrampicandosi su per il collo fino a farle tremare le labbra di terrore, quando vergate su un’anonima carta giallo ocra lesse le parole che ormai conosceva a memoria.

“Dì le tue ultime preghiere… Schifosa sgualdrina!”

La a finale terminava con uno svolazzo, come se l’autore – o meglio l’autrice, si corresse mentalmente Lucille, mordendosi forte le labbra – volesse in qualche modo smentire la freddezza della grafia, precisa e uniforme. Sobbalzò quando sentì un paio di colpi secchi alla porta, e istintivamente portò le braccia al petto. Nemmeno la voce rassicurante di Constance, la governante, servì a placare la galoppata frenetica e rumorosa del suo cuore.
– Lady Renaud, la sua camomilla! –
Mentre l’anziana donna posava il vassoio sul comodino, Lucille pensò che non si sarebbe mai abituata a tutte quelle attenzioni. Così come non si sarebbe mai abituata a sentirsi chiamare “Lady”. Per tutta la vita avrebbe continuato a guardarsi intorno stupita, prima di arrossire come una ragazzina ricordando che ormai quel titolo le spettava di diritto.
Quando aveva deciso di sposare Bernard, era stata felice di vedere l’orgoglio negli occhi di suo padre al pensiero del lustro che il titolo di Lady avrebbe dato alla casata dei Dumont, ricchi borghesi di provincia. Non aveva certo pensato che a Parigi tutti l’avrebbero guardata con disprezzo, considerandola una miserabile parvenue, ma soprattutto non aveva pensato che Bernard le aveva chiesto di sposarlo mentre era già formalmente impegnato con un’altra.
Lucille chiuse gli occhi nel vano tentativo di trattenere le lacrime, ma non poté impedire che due rivoli sottili attraversassero le guance bollenti, finendo sulla seta del cuscino.

Racconto numero 27
Gli occhi del soldato
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Questa è una storia che non dovrebbe essere raccontata. Non ha senso farlo, servirebbe solo a generare tremendi dubbi e spaventosi interrogativi. Ripensare agli eventi di quella notte mi riempie di angoscia. Ho sempre evitato di parlarne per non trasmettere ad altri il mio tormento. Ci ho provato a volte ma la paura e l’imbarazzo hanno sempre vinto, fino ad oggi.
Questa storia non mi ha mai abbandonato, è sempre con me, nascosta tra le dimore della mente, sopita ma sempre presente, incastonata nei ricordi di quel cammino beffardo chiamato esistenza, che volente o nolente ho dovuto compiere, guidato da uno spirito malvagio talmente crudele da fornirmi l’esperienza e la saggezza per percorrerlo quando ormai non mi restano che pochi passi per arrivare alla meta.
E una storia che in questi lunghi anni ho tenuto accanto, convivendoci come si farebbe con un vicino scomodo da cui non ci si può allontanare.
Adesso però che le forze cominciano ad abbandonarmi e passo il tempo che mi resta ad implorarne altro, ora che la malattia sta per vincermi è giunto il momento di aprire lo scrigno e lasciar venir fuori questa pena che ancora oggi mi terrorizza.
Questa è la storia di un momento, di un attimo che ha cambiato la mia essenza, il mio mondo, il mio stesso modo di percepire la realtà, condannandomi a solcare le stagioni caricato di un orrore indicibile di cui, ora, devo liberarmi.
La nebbia è scesa anche stanotte, fuori le strade sono ormai deserte, libere da quei mostri di lamiera costruiti per spostare vite. Dalla finestra del mio studio che si affaccia sul cielo aperto non riesco ad intravedere nemmeno una stella. Se ne vedevano a milioni quella notte del 1984 quando accadde l’inenarrabile.
Comiso, un paese qualunque sperduto nell’entroterra siciliano. Un municipio, alcune chiese, e case di calce bianca schiarita dal sole che picchia inesorabile nove mesi all’anno. In quel tempo vi si trovava la più importante base missilistica americana del mediterraneo, le oltre centotrenta testate presenti erano diventate operative qualche mese prima e ciò aveva comportato l’invio di decine e decine di nuovi avieri per assicurare la sorveglianza agli oltre sette chilometri di perimetro della struttura.

Racconto numero 28
Ventiquattr’ore
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
In un abito di tela grezza avana, Gerlando Giassa arrivò alle dieci e tredici minuti.
La sua giacca, i pantaloni e la camicia celeste parevano stirati poco prima, il Borsalino beige con la fascia marrone era impeccabile.
Scese dall'aereo con passo arrugginito e si guardò attorno, sentendo caldo e freddo allo stesso tempo.
Al contrario dei venti africani di Selinunte, secchi e caldi, questa afa era umida e pesante, faceva sudare anche uno magro come lui, poco abituato a quella sensazione.

Pietro Carinni ora si chiamava Eusebio Machado e viveva nella capitale Gaúcha da quattro anni.
Sua moglie si era già alzata, stava chiacchierando da sola in cucina.
Lui invece riusciva a dire le prime parole solo dopo qualche tazza di caffè scuro e senza zucchero.
Si lavò sommariamente e si fece la barba, poi cambiò idea e s'infilò sotto la doccia.
Sorseggiò il caffè scendendo.
Il negozio di materassi era sotto casa, nello stesso palazzo.

Gerlando si sorprese di vedere che i taxi a Porto Alegre erano rossi.
Era stanco ed aveva un po' di nausea.
Pensava al sangue che si riciclava continuamente.

Avrebbero notato tutti che era uno straniero, nessuna novità, ci era abituato, era sempre stato uno straniero anche in Italia.
Dovunque si fosse spostato, si era sentito a quel modo.
Anche a Castelvetrano, quando era stato a rivedere la sua vecchia casa paterna e ad Agrigento dove aveva una zia alla quale era assai affezionato, ma un po' rimbecillita, che non lo riconosceva mai.
In quel momento un altro taxi si affiancò al suo in mezzo al traffico del centro e dentro c'era lei: zia Carmelina che indugiò guardando verso di lui con gli occhi spalancati come faceva sempre tentando di capire chi era.
Gerlando trasalì restando ad un metro dalla faccia dell'anziana defunta.
Poi lei si mise di profilo, la sua fisionomia cambiò... e lui aveva bisogno di riposo, era molto più vulnerabile quando non dormiva le sue ore.

Racconto numero 29
La linea rossa
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Milano Cadorna.
Cairoli.
Cordusio.
La linea della metropolitana è una traccia di sangue sulla piantina della città; una traccia di sangue che scorre sottoterra, all’ombra delle fondamenta dei palazzi.
La gente, nonostante questo, cammina tranquilla. Bada alle proprie borsette, a tener per mano i figli, ad aver vidimato il biglietto. Un’altra fermata e si va in Duomo per comprare i regali di Natale, poi per i saldi d’inverno, per fare il regalo a un’amica, e via ad accalcarsi nei negozi a sudare per il caldo d’inverno e a rabbrividire per l’aria condizionata sotto zero, d’estate. A perdere tempo in coda. Minuti, ore; settimane o mesi, se li si mettesse tutti in fila.
La gente compra in continuazione; è un passatempo, quasi una mania. Fa a botte per accaparrarsi l’ultima cianfrusaglia, per riempirsi le giornate e non pensare che anche noi non siamo che tracce di sangue su questo mondo, destinati a diventare niente.
La gente è ignorante. Legata al vil denaro e all’apparenza, incapace di apprezzare le vere qualità che dovrebbe possedere un uomo.
La guardo da dietro gli occhiali spessi: prima la massa colorata che è la folla, un tutto odoroso e caotico; poi una persona per volta. Il giovane che non cede il posto alla vecchia. La donna incinta che si regge a stento, usando il grembo per passare avanti. Due bambine che litigano per una figurina, già pienamente incanalate sulla via della corruzione.

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