“IL SEGNO DELL’UNTORE” DI FRANCO FORTE NEGLI OSCAR BESTSELLERS MONDADORI
Ve ne avevo già parlato de Il segno dell'untore. La prima indagine del notaio criminale Niccolò Taverna (Mondadori) di Franco Forte, un anno fa alla sua uscita, e QUI potete leggere la mia recensione. Per chi non lo avesse ancora letto, vi comunico che nei prossimi giorni il romanzo sarà distribuito in tutte le librerie e sugli store online in versione tascabile (negli Oscar Bestsellers). Approfittatene!
L’uscita del romanzo nella prestigiosa collana degli Oscar Bestsellers è un
segnale non indifferente, in questo periodo di crisi, perché solo i libri che
hanno venduto più di 30.000 copie in
rilegato riescono ad avere accesso alla collana di punta dei tascabili
Mondadori, identificata proprio per questo come il contenitore dei romanzi
bestsellers del gigante di Segrate.
IL SEGNO DELL'UNTORE
di
Franco Forte
Titolo: Il segno dell’untore
Autore: Franco
Forte
Collana: Oscar
Bestsellers Mondadori
Pagine: 343
Prezzo: 10.50
euro
Il libro
Milano, anno
del Signore 1576. Sono giorni oscuri quelli che sommergono la capitale del
Ducato. La peste bubbonica è al suo culmine, il Lazzaretto Maggiore rigurgita
di ammalati, i monatti stentano a raccogliere i morti. L’aria è un miasma opaco
per il fumo dei roghi accesi ovunque.
In questo
scenario spettrale il notaio criminale Niccolò Taverna viene chiamato a
risolvere due casi: un furto sacrilego in Duomo e un brutale omicidio. Chi ha
assassinato il Commissario Inquisitoriale Bernardino da Savona? E perché? E chi
ha rubato il candelabro di Benvenuto Cellini dal Duomo?
La figura
del notaio criminale che si muove nel suggestivo scenario della Milano del
1500, dominata dalla Corona di Spagna e minacciata dalle continue epidemie di
peste, è alla base del romanzo “Il segno
dell’untore” di Franco Forte (Mondadori), che ha per protagonista il
giovane magistrato Niccolò Taverna nella capitale del Ducato nel 1576.
Investigatore
astuto, intelligente, grande osservatore di particolari che sfuggono a
inquirenti e criminali, Niccolò Taverna si trova a dover risolvere difficili
casi di omicidio in un clima di tensione tra il Governatore della città, il
potere clericale, rappresentato dalla figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo, e
la Santa Inquisizione spagnola, che vede nell’arcigna figura di Guaraldo
Giussani il suo nume tutelare.
Nel primo
romanzo delle indagini di Niccolò Taverna, questo straordinario personaggio che
sfrutta tecniche investigative a volte sorprendentemente moderne, per quanto
perfettamente calate nel contesto storico in cui si muove (e ben documentate
dall’autore) si muove in un mondo ricostruito alla perfezione, facendo compiere
al lettore un vero e proprio salto all’indietro nel tempo di quasi 500 anni, in
una Milano in cui, sullo sfondo del Duomo ancora in costruzione, delle colonne
di fumo che si sollevavano dai fopponi,
le fosse comuni in cui si bruciavano i morti di peste, dei conflitti di potere
tra Stato e Chiesa, la criminalità dilaga incontrastata e stupri, furti e
omicidi sono pratiche all’ordine del giorno.
Quella che
Niccolò deve seguire è un’indagine incalzante, con lo spettro incombente della
Santa Inquisizione che incombe ovunque, per risolvere un caso di omicidio che
potrebbe dimostrarsi molto pericoloso. Lo stesso arcivescovo Carlo Borromeo
pare implicato, così come le più alte cariche della Corona di Spagna e della
Santa Sede. Per non parlare dell’ordine degli Umiliati, che il Borromeo ha
cancellato e che già una volta ha cercato di uccidere l’arcivescovo di Milano.
Sfruttando
le sue straordinarie capacità investigative e le tecniche d’indagine
dell’epoca, il Notaio Criminale Niccolò Taverna cerca di venire a capo di
questi due intricati casi, che rischiano di compromettere la sua carriera e la
sua stessa incolumità. Pur sostenuto da un intuito eccezionale, è costretto a
combattere contro troppi nemici, tutti troppo potenti: pericolosi assassini, la
Santa Inquisizione, la peste, i cui artigli ghermiscono proprio chi Niccolò ha
di più caro.
Per il più
abile Notaio Criminale di Milano la sfida è aperta e la posta in gioco è alta:
la propria carriera e la propria incolumità. Oltre all’amore per una fanciulla
nei cui occhi ha l’impressione di annegare.
Un thriller
straordinario, che non concede soste al lettore, sostenuto da una rigorosa
ricostruzione storica.
L'intervista all'autore QUI!
L’autore
Franco Forte
nasce a Milano nel 1962. Giornalista, traduttore, sceneggiatore, editor delle
collane edicola Mondadori (Il Giallo
Mondadori, Urania e Segretissimo), ha pubblicato i romanzi Il segno dell’untore, Roma in fiamme, I
bastioni del coraggio, Carthago, La Compagnia della Morte, Operazione
Copernico, Il figlio del cielo, L’orda d’oro – da cui ha tratto per
Mediaset uno sceneggiato tv su Gengis Khan –, tutti editi da Mondadori, e La stretta del Pitone e China killer (Mursia e Tropea). Per
Mediaset ha scritto la sceneggiatura di un film tv su Giulio Cesare e ha
collaborato alle serie “RIS – Delitti imperfetti” e “Distretto di polizia”.
Direttore delle riviste Romance Magazine
(www.romancemagazine.it) e Writers Magazine Italia
(www.writersmagazine.it), ha pubblicato con Delos Books Il prontuario dello scrittore, un manuale di scrittura creativa per
esordienti giunto alla settima edizione. Il suo sito è www.franco-forte.it.
L’ESTRATTO DEL ROMANZO
per gentile concessione dell’autore
e di
Arnoldo Mondadori Editore
CAPITOLO PRIMO
12 agosto
1576
Ora prima
1
La prima
cosa che Niccolò Taverna sentì fu l’odore. Il lezzo greve dei corpi che
bruciavano nei fopponi, le grandi
fosse comuni scavate in città e nelle campagne, veri e propri varchi per
l’inferno che ardevano senza sosta, ma che non sembravano mai sufficienti per
accogliere i morti che riempivano le strade.
Niccolò si
agitò nel suo giaciglio, cercando di tenere gli occhi chiusi per non
svegliarsi, ma dopo l’odore furono i suoni ad aggredirlo, e la nausea gli
strinse la bocca dello stomaco. Si portò le mani sugli orecchi: tutto inutile.
Quelle grida, quei pianti, quelle urla isteriche ormai campeggiavano nella sua
mente da giorni, e non sarebbe bastato quel gesto a cancellarli.
Trattenendo
un gemito si mise seduto sul bordo del letto, poi aprì gli occhi e guardò
dall’altra parte della stanza, dove Anita aveva trascorso gli ultimi giorni con
lui, rantolando sul pavimento.
Era ancora
tutto come prima, come quando i monatti erano venuti a portargli via sua
moglie.
Niccolò
sapeva che avrebbe dovuto sbarazzarsi degli stracci, delle coperte e della
paglia intrisi di umori infetti che avevano fatto da giaciglio ad Anita.
Avrebbe dovuto bruciare tutto, come imponevano le ordinanze del tribunale di
Sanità e le gride del governatore
stesso, che tentavano disperatamente di arginare con quelle misure il dilagare
della peste, ma sapeva anche che se l’avesse fatto di Anita non gli sarebbe
rimasto più niente. Niente oltre al ricordo del suo viso pallido, dissanguato
dalla malattia, le pustole e i bubboni gonfi, il terrore negli occhi, velati
della follia che si impadronisce della mente quando la morte arriva a soffiarti
nelle nari.
Niccolò si
passò le mani sul viso e provò a respirare a fondo, ma il suo corpo si
rifiutava di inalare l’olezzo rancido di cui era impregnata la casa e che
filtrava dalle imposte, insieme alla finissima cenere in sospensione che nelle
ultime settimane aveva ammorbato l’aria di Milano. “Cenere di corpi
bruciati...”
Il pensiero
gli acuì la sensazione di malessere nello stomaco, e si sorprese di non essersi
ancora abituato alla vista di tante persone gettate nelle fosse comuni, perché
le fiamme purificassero la malattia che le aveva rese irriconoscibili.
Ma poi si
costrinse a dilatare le narici e a raccogliere aria nei polmoni, e quel gesto
fu determinante per costringerlo ad alzarsi e dirigersi all’armadio, dove prese
i vestiti e si preparò in fretta per uscire.
Mentre
indossava le calzebraghe e una camicia di cotone con polsi e colletto
arricciati, ripensò ai casi che aveva ancora in sospeso. Avrebbe dovuto agire
in fretta ma con tatto e discrezione, perché la gente non avrebbe capito le
necessità del suo incarico di notaio criminale e non sarebbe stata propensa a
seguire le disposizioni di legge e a sottoporsi agli interrogatori necessari
alle sue indagini.
Niccolò
sospirò e si allacciò in vita la cintura con i ganci per lo sfondagiaco
d’ordinanza, la borsa con i denari e gli strumenti del suo mestiere. Ai piedi
calzò morbidi mocassini di cuoio realizzati dagli artigiani di Porta
Vercellina, dono di suo zio Matteo Taverna, cugino di terzo grado del grande
Francesco, che era stato uno dei più illuminati governatori della capitale. Lui
non avrebbe mai potuto permetterseli. Il suo stipendio di magistrato gli bastava
appena per sopravvivere e per pagare l’esorbitante affitto mensile che il
proprietario del palazzo chiedeva per la sua stanza, soprattutto dopo che Anita
si era ammalata e lui si era lasciato abbindolare da guaritori senza scrupoli,
che lucravano sulle sofferenze della gente.
Quando fu
pronto lanciò un’ultima occhiata alle cose di Anita, ammassate in un mucchio
disordinato, e si disse che non poteva più rimandare. Sebbene il lavoro lo
reclamasse, doveva prima trovare sua moglie e scoprire se anche lei era
diventata parte della nube di cenere che gravava su Milano. O se era ancora
preda dei diavoli che le scavavano tane dolorose nel corpo e nell’anima.
Varcò deciso
la porta della stanza e si lanciò lungo le scale, tremando all’idea di ciò che
lo aspettava.
«Benedetto
ragazzo, dove corri con tanta furia?»
Svoltando
l’ultima rampa, Niccolò aveva quasi travolto una donna grassa che stava salendo
lentamente i gradini, sbuffando e tenendosi aggrappata al corrimano.
«Zia
Ofelia...» si scusò imbarazzato. «Sto andando da Anita. Ma lei...» scosse la
testa, senza aggiungere altro.
«Vuoi che ti
accompagni? Che ti prepari qualcosa per lei?»
«No, grazie,
non ce n’è bisogno» rispose Niccolò cercando di allontanarsi.
Zia Ofelia
lo fermò con una stretta poderosa. «Aspetta, portale una di queste» disse
indicando la cesta che teneva al braccio. «Le ho preparate con le mie mani.
Sono sicura che la povera Anita ne trarrà giovamento.»
Niccolò
trattenne un’imprecazione. Sapeva che non c’era altro modo per liberarsi di zia
Ofelia che accettare le sue offerte culinarie.
«Grazie» si
arrese, infilando la mano nella cesta e pescando qualcosa di molle, che
gocciolava.
«Stai
attento» lo mise in guardia lei, «è una birraia fresca, lasciata ad ammorbidire
per tutta la notte.»
Cercando di
nascondere il disgusto, Niccolò osservò la forma di pane duro intrisa di birra
acida che gocciolava sulle scale, minacciosamente vicino alle sue scarpe.
«Grazie»
disse, imponendosi di sorridere. «Anita la apprezzerà di certo. Ma adesso devo
proprio scappare.»
Niccolò si
allontanò tenendo la birraia gocciolante a un braccio di distanza dai suoi
preziosi mocassini, poi quando fu in strada, lontano dallo sguardo della zia,
lanciò la matassa spugnosa in un canaletto di scolo.
Anita aveva
sempre odiato la birraia, e non era certo quello il momento per convincerla ad
assaggiare le prelibatezze di zia Ofelia.
2
Doveva
essere appena scoccata l’ora prima, anche se Niccolò non poteva saperlo con
certezza. I campanili delle chiese tacevano da diversi giorni, dopo che il
battere dei rintocchi era diventato incessante, sospinto dal gran numero di
morti che si inseguivano ora dopo ora. Era stato lo stesso arcivescovo Borromeo
a ordinare il silenzio, che non era di spregio alle vittime ma contribuiva a
rendere meno fragoroso il pianto e l’urlo d’angoscia di tutta la città.
Niccolò era
grato all’archidiocesi per quel provvedimento, ma d’altro canto per lui lo
scandire delle ore dai campanili si era sempre dimostrato uno strumento valido
per organizzare il lavoro e cercare dei punti di riferimento durante le sue
indagini criminali.
Ma adesso
non ne aveva bisogno.
Mentre
scivolava lungo le strade, diretto al palazzo in cui era stato allestito uno
dei tanti provvisori centri di Sanità sparsi in ogni quartiere, Niccolò cercava
di guardarsi intorno il meno possibile. Teneva gli occhi puntati
sull’acciottolato resistendo al richiamo di urla disperate, grida strazianti,
suppliche d’aiuto o strilli di rabbia che provenivano dalle case sbarrate dai
monatti e dai commissari di Sanità per evitare che presunti malati di peste
uscissero a infettare le poche persone sane che ancora si aggiravano per la
città. Era difficile resistere allo strazio di quelle grida. Da un lato avrebbe
voluto intervenire per liberare quei poveracci che rischiavano di finire uccisi
dalla fame e dagli stenti, più che dalla malattia; ma dall’altro ricordava il
volto pallido di Anita, gli occhi infossati per la sofferenza, e la sua rabbia
quando gli aveva gridato di stare lontano da lei, di non avvicinarsi, prima di
perdere definitivamente il senno e crollare esausta sul suo giaciglio sporco,
le labbra spaccate e lo sguardo perso in un mondo che solo lei poteva vedere.
Il
governatore aveva fatto affiggere le sue gride
sui muri della città, esortando i cittadini a collaborare con le autorità
sanitarie, a restare chiusi in casa a meno che non fosse strettamente
necessario uscire, e aveva concesso ai commissari di Sanità un potere quasi
assoluto, quando si trattava di individuare focolai d’infezione. Ma il
Lazzaretto Maggiore e tutti quelli che erano stati improvvisati in ogni
quartiere erano pieni all’inverosimile, e non c’era stato altro modo per
cercare di tenere la situazione sotto controllo che chiudere in casa chiunque
desse segno dell’insorgenza della malattia, confinando all’interno anche
parenti e familiari, possibili portatori del contagio. I monatti sbarravano
porte e finestre inchiodandole con le assi e mettendo traversi di sostegno, in
modo che dall’interno diventasse impossibile abbatterle, e tutta quella gente
era costretta a restarsene imprigionata nella propria abitazione in attesa di
ammalarsi e di morire, oppure del miracolo che l’avrebbe riconsegnata al
perdono di Dio.
Ma ormai
erano troppi quelli costretti alla reclusione, e in tutta la città si levavano
grida ingannevoli: tanti asserivano di essere guariti o di non essere affatto
ammalati, e imploravano di essere liberati, piangevano, minacciavano, urlavano
esausti e smarriti.
Niccolò
scosse la testa per cercare di scacciare le immagini che quelle urla evocavano
nella sua mente. Solo l’anno prima, insieme ad Anita, aveva cominciato a
leggere la Divina Commedia dell’Alighieri, in una pregevole edizione a stampa
che si era diffusa velocemente in tutto il Ducato,
nonostante
fosse stata realizzata dal veneziano Ludovico Dolce, che si diceva fosse in
odore di eresia.
Avevano
letto diverse terzine con curiosità, poi, a mano a mano che si erano addentrati
nell’Inferno descritto dal poeta, avevano capito che Dante non si era scostato
troppo dalla realtà, e forse aveva solo descritto un mondo che aveva visto con
i suoi occhi, molto simile a quello in cui si stava dibattendo Milano sotto gli
strali della peste.
Eppure
Niccolò era convinto che nemmeno l’Alighieri avrebbe potuto immaginare un
girone dell’Inferno simile a quello in cui erano imprigionate centinaia di
persone in quel momento, costrette a convivere con i propri ammalati, a
respirare l’aria malsana intrisa dell’odore degli umori infetti, scossi dal
terrore di veder crescere anche su di sé i bubboni della peste.
Sentendo
salire di nuovo la nausea accelerò il passo, evitando di camminare rasente ai
muri delle case, per non rischiare che gli arrivasse in testa un secchio di
escrementi svuotato in strada da qualcuno che se ne infischiava delle
disposizioni sanitarie, o che addirittura cercava di vendicarsi
in quel modo
per la segregazione che doveva subire.
E poi
c’erano gli indumenti e gli effetti personali dei malati, che i monatti
gettavano dalle finestre per risparmiare tempo e che cadendo imbrattavano i muri
con schizzi di materia putrida che segnavano gli edifici come se fossero stati
messi all’indice.
Niccolò non
sapeva come si trasmettesse la malattia, ma alcuni suoi amici che lavoravano al
tribunale di Sanità gli avevano consigliato di stare lontano da quella materia
infetta in quanto ritenuta la causa più probabile del diffondersi
dell’epidemia.
Quando
svoltò in via della Vetra fu costretto ad arrestarsi.
Davanti a
lui si ergeva qualcosa di ancora più spaventoso delle secrezioni degli
appestati o delle grida dei disgraziati rinchiusi nelle loro case.
Vide un
presidio del Consiglio dell’Inquisizione Generale, con il patibolo per le
esecuzioni e le travi a cui venivano legati gli accusati di pratiche immonde
come la stregoneria, l’unzione o la predicazione dell’eresia, affinché fossero
torturati e potessero, confessando, purificare la loro anima
prima del
supplizio inevitabile.
Niccolò
trattenne un moto di rabbia e strinse con forza i pugni. Quei presidi della
Santa Inquisizione avevano il compito non tanto di punire i colpevoli di
qualche eresia, quanto di diffondere la paura e fare capire che la Corona di
Spagna era ancora vigile sul Ducato: nonostante le pressioni esercitate
dall’Arcivescovado e dal Borromeo, il Consiglio, che rappresentava l’Inquisizione
Spagnola, aveva
piena
autonomia decisionale in tutto ciò che riguardava atti di stregoneria o
l’abominio protestante. Era una guerra in atto tra poteri forti che si
riversava sulla povera gente e che prevedeva la nascita di quelle strutture del
terrore nei punti nevralgici della città, per stringere le briglie del cavallo
malato e sofferente in cui si era trasformata Milano.
Niccolò
restò un attimo a osservare gli abiti bianchi e neri dei domenicani che
allestivano il patibolo e gli attrezzi per le torture, e si sentì arrestare il
cuore nel petto quando si accorse che uno dei prelati, un uomo alto e dallo
sguardo severo, con il naso aquilino proteso verso di lui come il becco di un
rapace affamato, lo stava fissando. Cercò di sostenerne lo sguardo, poi si rese
conto che sarebbe stato un atto d’insolenza: quel domenicano avrebbe anche
potuto essere un commissario inquisitoriale di alto rango, per ciò che ne
sapeva. Abbassò quindi gli occhi e riprese a camminare al centro della strada,
trattenendo a stento la voglia di mettersi a correre per sfuggire alla
pressione dello sguardo del domenicano, che sentiva premere su di lui.
Quando
finalmente svoltò nella piazzetta su cui svettavano le colonne romane di San
Lorenzo, in cui era stato allestito il presidio del tribunale di Sanità, tirò
un sospiro di sollievo e cercò di concentrarsi su quello che lo aspettava. Non
sapeva se Anita era ancora viva oppure no. E, soprattutto, non sapeva quale
delle due ipotesi augurarsi. Perché ormai da troppo tempo ciò che restava di
sua moglie era ben lontano dalla donna che lui aveva amato.
Complimenti a Franco Forte per questo bel romanzo!
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